ARTO LINDSAY, GEMELLI CONCLAMATO E PSICHEDELICA MARGHERITA DA SFOGLIARE

  • Rioma
  • 24/07/2014

Recensione del concerto romano ad “Eutropia – Città dell’Altra Economia”, 18 luglio 2014 >
Servizio di Romina Ciuffa, foto di Giosetta Ciuffa_DSC4202

di ROMINA CIUFFA“Eutropia”, festival che salva letteralmente l’estate romana 2014, porta a sé addirittura Arto Lindsay, che presenta “Encyclopedia of Arto”, doppio album uscito il 27 maggio per Ponderosa Music&Art, interpretato dalla Arto Lindsay Band accanto a Marc Ribot (nella foto in basso) su questo palco, anche lui statunitense, anche lui alla chitarra, con la quale ha accompagnato Tom Waits, John Zorn e Elvis Costello. Un cd dedicato al Brasile, contenente sonorità tra bossa e contaminazioni: lettura del tropicalismo iniettato di elettronica, trip-hop, drum’n’bass, r&b; l’altro più americano, più “art-acid-rock“, sua duplicità intrinseca per le ragioni che sono elencate di seguito.

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“Addirittura”, perché è una scelta arrischiata. Lindsay non è un sempliciotto né un divo pop; popolare men che meno. Chi si è recato al suo concerto del 18 luglio non è andato a fare una passeggiata di salute, bensì a stringere le meningi e posare su sonorità sperimentali – sperimentali è dir poco – quasi fastidiose. Si direbbe che Hermeto Pascoal rasenti la musica leggera, al suo confronto. Lindsay è figlio del tropicalismo di Caetano Veloso e Gilberto Gil, che danno ad Arto una visione post-futurista, dunque un ribelle della poesia concreta e di quella antropofagia di cui il movimento si cibava, fondandosi sul cannibalismo culturale e musicale di tutte le società. Ma non ha avuto bisogno del Brasile per avere notorietà, conferitagli da un suono, inserito in una compilation curata da Brian Eno («No New York»), nella quale collocava stridore e fascino nichilista della metropoli dei tardi anni 70.

Protagonista del movimento No Wave, esploso attraverso una compilation prodotta da Brian Eno nel 1978 dal titolo “No New York”, fondatore di una band leggendaria degli anni Ottanta, i Lounge Lizards, con i Contortions, i Teenage Jesus & The Jerks e i Mars sconvolse New York e la scena no Wave; collaboratore negli anni di personaggi di grande calibro tra i quali John Lurie, Ryuichi Sakamoto, John Zorn e Caetano Veloso, nel 2002 ha ricevuto il Latin Grammy Award, per la produzione del disco di Marisa Monte “Memorias, Cronicas e Declaracoes de Amor”.

Lindsay è in cuor suo figlio U.S.A., sprizza americano da tutti i pori, e tra i suoi collaboratori sono stati Laurie Anderson, Brian Eno, David Byrne e John Zorn. Nato a Richmond, nello Stato del Virginia, il 28 maggio 1953, il segno è del Gemelli, ossessivo, temerario, duplice, malato, nervoso, insindacabile e nel contempo insicuro, complesso al punto tale da non poter essere contestato. Scriveva anche il grande filosofo Bertrand Russel (parafraso a memoria): se vuoi fare l’eccentrico, fallo bene, o altrimenti la normalità è indubbiamente la scelta più sana. Ma un Gemelli non può non nascere sofferto, sofferente, e portatore di sofferenze agli altri; la sua incostanza, mutevolezza (nel Tropicalismo c’erano anche i Mutantes, coincidenza o destino), la sua impazienza, la follia e l’anemia, il passaggio da un genere all’altro fino a giungere niente di meno che alla bossa, un animo inquieto che trasmette tale fragore sulle corde, non vergognandosi ma rendendo il proprio stile il prediletto per la maggior parte degli astanti che lo ascoltano. Alcuni dei quali… ballano. Anche quando sembra che stia indossando la chitarra avendola erroneamente lasciata collegata al mixer, lasciandola stridere ad alto volume e rendendo lo show uno psichedelico intreccio di domande.

Anche giornalista per il Village Voice, Arto dall’America era abituato a seguire i genitori, missionari presbiteriani, per il Brasile, vivendo in un villaggetto. E via su e giù nel corso dell’intera vita, per tal fatto acquisendo una linguistica su doppio binario, quella che lo ha portato, oggi, a parlare un idioma incomprensibile sia quando favella in americano, sia quando opta per il portoghese brasiliano. Mano sul fuoco che è ubriaco, o altro, mentre pronuncia senza speranza i nomi dei suoi musicisti, introducendoli al pubblico del Testaccio eppur rendendoli misteriosi. La sua chitarra non è da meno: fa rumore, come lui, e va compresa per poter dire “mi piace”. Non è vero il contrario: semplice, semplicistico, dire “non mi piace”.

Così questo Lindsay è come una margherita da sfogliare: mi piace, non mi piace, mi piace, non mi piace, e non dipende da lui la risposta, né da noi, bensì dalla natura, dal numero di petali. I brani che presenta al pubblico capitolino sono di ogni tipo e provengono da ogni contesto, tanto da includere un paio di samba che samba non sono più a contatto col suo stile, ma acquisiscono tutt’altra forma. Quella di un gigante sperimentale, che non accetta compromessi e non si spoglia delle proprie visioni, non mercenarie, non commerciali, solo molto spavalde, che lo rendono un Don Chisciotte da palco mentre si scontra con ogni nota che il brano imporrebbe. Ha spartiti e li legge, eppure escono solo suoni gravidi di rock uggioso, urla di incontinenza, la storia del punk jazz e di tutti quei generi che restano necessariamente di nicchia salvo divenire una moda da tatuare.

Lindsay è l’esempio conclamato del Gemelli. Per interpretare un Gemelli, può essere utile solo una margherita dagli incontabili petali. La razionalità la si lasci da parte.

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