OCCHIO “DI BUIO” SU MARISA MONTE

  • Rioma
  • 17/04/2013

di ROMINA CIUFFA >
Marisa Monte, Tour “Verdade Uma Ilusão” – Roma, Auditorium, Sala Santa Cecilia

Nulla di molto differente da un classico concerto di Marisa Monte, non foss’altro che in Italia non è di casa. Grande eleganza, vestito semplice, voce soave, musicisti grandiosi. Non è questa la prima volta, ma forse la più matura, per la brasiliana resa nota dai più commerciali Tribalistas, gruppo che si affermava alcuni anni fa e portava un sound verdeoro in effetti non classico per il Paese del samba e del levare, grazie alla (o per colpa della) somma dei tre elementi: accanto a lei, il visuale paulistano Arnaldo Antunes e il soteropolitano reggae Carlinhos Brown.

In effetti questa solitaria Marisa (dimenticando lo stuolo degli strumentisti alle sue spalle) non vi si avvicina affatto, provvida di brani con sinonimi amorosi a tonalità perlopiù maggiori (o poco minori). Bisogna dirlo, Marisa Monte è una gran brava artista, per il suo stare sul palco ed il suo guardare con silente dolcezza la platea buia. Il suo delicato suonare chitarre e porsi i dubbi di tutti mentre canta: cos’accade “depois”? “Io sono di qua, non sono di Marte”, dice lei, uno dei pezzi in minore. Va detto, si ripetono le costruzioni musicali, un’ingegneria musicale semplice, tipica di una modesta MPB (la Música Popular Brasileira), ma non per questo inferiore.

Inferiore è l’acustica della Sala Santa Cecilia, che spesso non rende chiara la distinzione tra questa Marisa Monte e l’Hermeto Pascoal di pochi giorni fa, casinaro dei rumori e facile di melodie disarmoniche. Altro stile, altro mondo per un barbuto canuto classe 32, ma entrambi i brasiliani abbiamo scomodato dall’altro lato dell’oceano senza dar loro il meritato amplificatore.

Marisa Monte omaggia l’Italia attraverso l’uso della lingua del posto ed è quasi perfetta. Ciò che dice è “para para” la traduzione dal brasiliano del concerto, da chi scrive già visto, eseguito a Rio de Janeiro per l’università UERJ, in esclusiva dedicato a 180 invitati. Ma la Monte prende intanto confidenza e, finalmente, ricordando la sua Cassia Eller e spiegando il concetto di “saudade” (per la compianta grande roca carioca), tira fuori quella linearità di voce sua propria, un violino interiorizzato che lascia commuovere. “Se non ho il mio amore ho il mio dolore, sono vuoti la cucina e il corridoio”. La ascoltano tutti i brasiliani di Roma, e tra il pubblico anche Maria Pia De Vito, Roberta Amurri, l’amico montiano Max De Tomassi con famiglia, il direttore Unicef Davide Usai, il musicista pernambucano Almir Da Cruz insieme alla moglie Alessandra Flora, giunti appositamente da Perugia, e molti altri (Rosàlia de Souza, a Rio,è come se ci fosse, con due biglietti lasciati in bianco). Etc.

Poi finalmente Marisa ritrova se stessa. I suoi musicisti anche sembrano riacquisire verve, e dopo le presentazioni in italiano sono più contenti. Il concerto però è assolutamente identico, anche nelle parole della cantora, persino nei guanti, gli stessi che indossava nello show carioca. Finanche l’orecchino, lui. Quindi l’interrogativo: è giusto che un tour sia in ogni sua tappa identico a se stesso? È preferibile mostrare mutabilità o dare a tutti la stessa cosa, a prescindere dal tempo e dallo spazio? La mia risposta, se mi fosse lecito darne una, è nel senso dell’unicità. Ogni tappa dovrebbe essere unica, ogni canzone, ogni nota suonata una volta non dovrebbe poter esser mai riprodotta e dovrebbe conferire allo spettatore un momento speciale, che si crea anche – ma non solo – attraverso il posto numerato a teatro, la traiettoria di visuale dell’artista, il luogo e il tempo in cui vi si assiste, la storia personale. Un concerto non è uno spettacolo teatrale, un copione, un tour è e dovrebbe essere un giro per il mondo alla scoperta del nuovo, sia in attivo che in passivo.

La carioca, cantando la sua Ainda bem qui a Roma, è di certo più apprezzata nella premessa di quanto non lo sia stata a Rio: “Mina, la vostra grande Mina, ha voluto inserire questo brano nel suo album. Glielo avevo mandato per suonarlo insieme, ma mi basta anche Il fatto che l’abbia preso solo per lei. Così lo canto da sola anche io per voi”, e questa volta non è finamente tenuta a spiegare chi è Mina, mentre una introduzione più compìta è stata richiesta dai brasiliani e da tutti gli altri auditori internazionali. Oltre a ciò, non cambia di una virgola il copione.

Anzi. L’ambaradam della scenografia di luci e proiezioni esibito in terra carioca viene meno: ci si chiede se non sia una scelta o la solita colpa degli italiani impreparati. L’Auditorium manca però l’appuntamento con quella scena, per probabile impossibilità di ospitare l’impianto. Per questo c’è solo da dire: “Peccato”. La Depois stesi su un letto con Marisa Monte non era affatto male nella versione originale.
Ed io non voglio dire che a Rio si stava meglio, non era il sole a cambiare l’approccio reciproco tra la raffinata Marisa e i suoi ascoltatori. Non era l’estate no, né il fatto che l’università straripava di cultura anche al bar, o che i biglietti potevano comprarsi con qualche litro di latte; né che l’istituzione Monte in Brasile non mente. Non starò a sindacare il solito Auditorium che non consente di levarsi in piedi per il concerto dell’ennesima straniera, abituata alle lacrime dei suoi fan; né parlerò del buio fisso sui musicisti, che lei presenta come tra i migliori – soprattutto dando rilievo al trio pernambucano Nação Zumbi – ma che a malapena vediamo. Il divismo all’italiana, il dare l’occhio di bue alla primadonna e l’occhio di buio ai grandi violini (dietro una grande donna, in questo caso allora, ci sono dei grandi uomini e la quota rosa è rispettata).

Il tour, nella traduzione “Verità un’illusione”, si rileva un po’ dalla maledizione del suo titolo, il commerciale avanza, il Brasile comincia a vivere di rendita e attende i successi facili delle Olimpiadi 2016, e la Monte anziché finire, come a Rio, con Amor I Love You, e con uno spettatore a caso che rifà tutta la parte poetica di Antunes (a riprova il video di RIOMA con il concerto di Rio, disponibile al nostro INFOPOINT), qui chiude con… Já sei namorar. È ora che formalmente mi vergogno (sebbene ogni pezzo per un’artista sia un “pezz’e core”, trattasi di un’aggiunta tutta italiana di stampo “marchetta” per accontentare il pubblico).

Questa è una recensione obiettiva, svincolata dall’ardore animato che muove un fan, di un concerto in cui, come in molti altri, è più il produttore a cantare che non l’artista, trattato alla pari di un Musical commerciale. So di essere controcorrente: tutti sono felici, e tanto basta. Per completare me, invece, è servita la solita Beija Eu e quella infinita eleganza interiore, di portamento, e cantata, che nessun tribalista può scalfire ad una donna come questa.

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MARISA MONTE, POST-STAGE
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