MARIA PIA DE VITO, UN “GAP” CHE LEI COLMA

  • Rioma
  • 05/09/2014

Recensione – MARIA PIA DE VITO (agenzia Saint Louis Management) in “Mind the Gap”, 4 settembre 2014, Roma Summer Jazz Fest di Via Margutta. A cura di ROMINA CIUFFA >

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di ROMINA CIUFFAIl piacere è una cosa, l’estasi altra. È estatica Maria Pia De Vito con il suo strumento, la voce, che lei in molti anni e ispirata dal grande Demetrio Stratos (il quale raggiungeva risultati al limite delle capacità umane: era in grado di padroneggiare diplofonie, trifonie e quadrifonie) ha dotato di una tecnica assolutamente perfetta, di cui è ricercata insegnante, e della libertà di un’improvvisazione unica arricchita dall’uso di effetti vocali e tecniche particolari per ottenere suoni inusuali. Il concerto del 4 settembre 2014 e questo miracolo vocale si verificano in un cortile di Via Margutta, a Roma, lo stesso in cui Gregory Peck ed Audrey Hepburn si muovevano nel bianco e nero delle loro “Vacanze romane”, e nell’ambito di un Festival – il Roma Summer Jazz – che di per sé ha uno sforzo e un dolo, nella sua stessa essenza ed origine, tali da non poter non esplodere nel contatto con la regina italiana del Jazz.

L’antefatto spiega meglio: il festival è realizzato con il contributo personale e diretto dell’organizzazione e degli operatori del settore, un progetto che nasce a seguito del rifiuto del Comune di Roma di destinare fondi ad un’estate romana in Jazz scegliendo così la strada di momenti commerciali, si veda per tutti lo scempio della Festa dell’Unità – porchetta e caciotte al posto della Casa del Jazz. Non rassegnati, Mirella Murri, Daniela Lebano e Pietro Gabriele creano questa rassegna, con la collaborazione del Centro Regionale Sant’Alessio-Margherita di Savoia per ciechi che ha dato la concessione degli spazi e a cui è devoluto parte del ricavato dei biglietti, e dell’Associazione Internazionale di Via Margutta nella persona della presidente Laura Pepe. Un gap da colmare quello dell’amministrazione capitolina, non di certo l’unico se si pensa che è anche e soprattutto per arrivare a Via Margutta che si paga lo scotto del sindaco Marino, quando ci si accorge, per la prima volta, che la storica via è irragiungibile a causa di nuovi tentativi di pedonalizzazione dell’area che hanno massacrato la viabilità e la vivibilità del quartiere Spagna, destinati a condannare ancora una volta Roma e i romani.

Il termine “Gap” lo uso non a caso – per intendere “vuoto” abbiamo già a sufficienza termini italiani che non devono chiedere aiuto all’inglese. Lo uso perché questa volta a dire «Mind The Gap» è la stessa De Vito. È, infatti, il titolo della serata e il nome dal suo album del 2009, contenente un repertorio articolato e osè, da Annie Lennox alle composizioni «nordiche» di Björk, Sidsel Endresen e Django Bates, per proseguire con Randy Newman e Jimi Hendrix, come anche i brani autoriali nei quali è stillata un’elettronica di denso ed elegante rilievo, in questa sede curata dal pianista abruzzese Claudio Filippini, tra l’altro anche bravo autore di “Space Trip”, concept album per trio jazz ed elettronica.

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Con Filippini, ad accompagnare Maria Pia De Vito sono anche il contrabbasso di un altro abruzzese, Luca Bulgarelli, per la critica uno tra i migliori giovani contrabbassisti in circolazione (usa anche il basso elettrico ed è attento agli strumenti digitali) e la batteria di Walter Paoli, altro nome di grande richiamo nel panorama jazzistico contemporaneo. Compagni di viaggio questi che sono coraggiosi guerrieri con la missione dell’interplay e tanto quanto De Vito si lanciano senza rete in improvvisazioni che sanno di libertà, Africa e rock, free e jazz, citando Evidence di Monk e rendendolo il leitmotif su cui si fonda tutta l’improvvisazione dell’incredibile brano autoriale della De Vito, “Zoobab De Ouab”, personaggio fantomatico che vive per poter essere in evidenza mediatica, e si innamora a tal punto del suo io fittizio, prodotto ad arte, da volersi vedere in tutte le pubblicità, quotidiani, riviste, televisione.

Riferimento, quello di Zoobab De Ouab, molto attuale che in men che non si dica riporta allo scompiglio, alla crisi dell’identità personale e collettiva, al “gap”, appunto. Un gap, racconta la De Vito, tra “come noi pensiamo sia la nostra vita e invece è, tra come pensiamo siano le cose e invece… esse sono diverse. Un gap tra le generazioni”. Spiega: “Sono migliaia gli esempi che possono calzare. Oggi suoniamo ‘Re-mind the gap’ dopo 4 anni in un mondo che è molto cambiato. Già è un gap enorme cercare di stare sereni, di fare musica o scrivere cose divertenti sui social network mentre facciamo finta di non vedere i trecento nella nave che arrivano davanti a noi, alcuni già morti, o proviamo a non dar peso all’articolo sul nuovo americano decapitato… Ci è richiesto di essere tutti un pochino più schizofrenici per campare, dobbiamo a tutti gli effetti fare un ‘remind del gap’ perché è sempre più grande e, come dice questo testo, la questione è tutta come lo riempi”.

Il momento dedicato alla famiglia Buckley è intenso: “Venti anni fa uscì un disco, unico purtroppo, del meraviglioso musicista Jeff Buckley, ‘Grace’, una grande perdita per tutti noi la sua scomparsa come anche l’assenza di altre produzioni musicali. Anche suo padre, Tim Buckley, era un grandissimo musicista, come il figlio scomparso prematuramente”, e sceglie (già nel disco) la stessa GraceSong to the Silence, e per il bis finale Hallelujah, brano epocale reso noto da Buckley stesso ma composto da Leonard Cohen.

De Vito è vera, sincera, fiera e riesce con la sua voce a far arrivare messaggi complessi ed emozionanti anche ai non addetti ai lavori, la sua grandezza vocale ed espressiva tiene sospesi nella storia che racconta, la storia di un buco nero, per farla breve, che il Jazz può tenere fermo in pugno poiché, nell’improvvisazione di una regina, riesce ad evitare la stretta all’interno di un destino già segnato o non comandabile. È affidandosi al mare mosso che una nave a volte può evitare i danni più gravi giungendo, per via di una libertà impensabile e violenta, alla terra ferma; è attraverso funambolici contorsionismi vocali che Maria Pia De Vito muove questa barca nel suo gap, richiamando i grandi della musica mondiale, rivisitandoli nel suo mare mediterraneo con il bianco e nero della più grande Ella Fitzgerald, sua prima ispirazione, cantando Hallelujah non appena giunta a destinazione. Una nave guidata dalla De Vito è una nave sicura, se è vero, come diceva Pasolini, che “i napoletani sono una tribù che non vuole morire”. Per questo – in un Roma Summer jazz che non doveva proprio esistere e che invece esiste, in una notte che dava pioggia e che invece è stata di sole, tra un Buckley padre e un Buckley figlio simbolo di ogni passaggio generazionale che dà luogo a gap, in una Via Margutta che rispecchia la più amplia crisi che Roma, attraverso i propri amministratori, abbia mai sperimentato – Maria Pia De Vito è estasi e non piacere, àncora di salvezza dalle dinamiche di un social network che impone semplici “mi piace”.

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