CHIARA CIVELLO: PRIMA PROUST, POI AUDITORIUM

  • Rioma
  • 11/12/2015

Schermata 2015-12-11 a 17.18.37

di ROMINA CIUFFAScrive Proust: “È spesso solo per mancanza di spirito creativo che non si va abbastanza lontano nella sofferenza”. Chiara che sta diventando sempre più una donna, abbandonando quella componente più sbarazzina e comunque mantenendola, si avvicina oggi a quella Jessica Rabbit che conosciamo come l’amante di un coniglio, ovvero a metà tra una storia ed una realtà. Chiara che dal jazz ha tratto spunto per divenire newyorchese, dal Saint Louis College of Music da cui ha camminato sui primi passi, per giungere a Berkelee e, dopo tanti anni di studio e carriera (Proust: “Le teorie e le scuole, come i microbi e i globuli, si divorano tra di loro, assicurando, per mezzo della reciproca lotta, la continuità della vita”), infine tornare a fare un tour – quello recente – che l’ha vista protagonista negli States dei migliori locali, oggi anche con “Fever” di Eddie Cooley e Otis Blackwell (1956) all’Auditorium Parco della Musica (2015) dove, presentando con la Salerno Jazz Orchestra (lei dice “Salerno forever”) il suo “solito” ultimo disco (uscito nel 2014, il 6 maggio, ma il 2014 è già lontano), eppure rinnovandosi totalmente anche questa volta. Aggiunge ai “soliti” Vasco Rossi (speciale è la sua ripetizione pacata, placida, intonata, ridonante, leggera, pop ma anche jazz, di “va bene va bene va bene va bene va bene va bene va bene va bene va bene così”, in cui Chiara supera l’autore e rende la classe che ci vuole a questo brano), Negramaro, Rita Pavone, Vinicio Capossela, Paolo Conte et altera (vedi disco) anche brani suoi con e di altri ancora. Ci sono poi “i soliti” “Il mondo”, “Io che ho amato solo te” e tutti questi classici, non solo della musica italiana ma anche della musica civelliana, che li canta sempre come fossero i suoi scudieri, condottieri di una carriera che il suo ufficio stampa si ostina a chiamare “raffinata”, ma che in realtà è eclettica. La raffinatezza si addice a quelle signore prive di stimole, sebbene belle e raffinate per l’appunto, che non sanno cavalcare onde troppo forti: Civello è pronta a tutto e, sì, è raffinata, ma ha più grinta che raffinatezza, ed una carriera non raffinata ma grintosa, tanto da sfidare i miti italiani e riproporli, tutte le volte, con la sua chitarra, su tutti i palchi, e farli cantare anche a Gilberto Gil, Chico Buarque, Ana Carolina, Esperanza Spalding. E poi, come non bastasse, c’è “Se”, scritta con Patrizia Cavalli, la più grande poetessa italiana in vita, oggi assente in Auditorium per “problemi personali” ma in effetti “sempre presente, come ogni poeta”, che Civello presenta al suo pubblico.

Il quale è in estasi, sublimato, quel pubblico che lei ha che sa essere fissato, entusiasta, ossessivo, fomentato, come si deve ai grandi cantanti di musica pop. Perché il pubblico di Chiara stravede per lei, fan club per ogni dove, sfegatate la seguono per le città con cappellini e magliette e urlano e strepitano mentre lei si esibisce, e se lei fa una domanda a cui si aspetta o chiede un sì loro “Sì” urlano, questi fan ma più “queste” fan: è il caso particolare in cui una donna ha fan femmine che si strappano i capelli per lei e riempiono gruppi di Facebook come fosse un maschietto hollywoodiano dicapresco. Pop si diceva, questo spetta al divismo di reality e musica leggera, ed è questo il successo, per non dire il miracolo di Chiara: quello di scatenare spiriti pop facendo jazz e Brasile. Come si spetta alla sua Ana Carolina, con la quale ha fatto una carriera strepitosa a Rio, un successo che si deve ai divi, e così Chiara ha ottenuto la sua popolarità meritata. Dopo tanti studi e tante scelte difficili, passando da Roma a Milano, dall’Italia all’America, dall’America del Nord all’America del Sud, da San Giovanni a Trastevere eppur sempre mantenendo viva la sua ecletticità, la voglia di stimoli, il bisogno, l’esigenza di novità, leggendo Proust prima di questo concerto all’Auditorium, coinvolgendo Nicola Conte nel disco “Canzoni” (un dj, alla fin fine, ma all’inizio inizio un miracolo della produzione e del mix, che le regala spesso e volentieri anche la sua Nicola Conte Jazz Combo) ma anche Le Divette (queste tre ragazze che cantano anni 60 tutte vestite da vecchie italiane coreggiando “uh uh” e facendo rimpiangere di non avere come amica Olivia Newton John e John Travolta. Ma brave, davvero brave. Che al compleanno di Chiara le hanno fatto “Happy Birthday” davanti alla torta). Poi, quando prova a uscire dal palco, c’è chi mormora “no, ti prego, fa che non abbia finito”, “perché hanno tolto il microfono di lei”, “urla tu bis che ti si sente meglio”. Chiara rientra, l’avete voluto voi, e quando suona il pianoforte accavalla pure la gamba nonostante gonna e tacco, come si addice alle ragazzette del pianoforte (e infatti, scrive Proust, “c’è qualche cosa che ha un potere di esasperazione non raggiungibile da una persona, ed è il pianoforte”): perché questo è Chiara, una che cambia ogni attimo, che si concentra solo distraendosi e si distrae perché deve concentrarsi, che corre dietro ai propri sensi, che salta da chitarra a piano e da un neo all’altro come una coniglietta, ossia la sposa di un coniglio. Jessica Rabbit, per l’appunto. Anche questa esibizione termina: “So il dispiacere che sto per recarti. Primo, perché invece di rimanere qui come tu volevi, parto anch’io contemporaneamente a te. Ma questo non è ancora nulla” (Proust)Ma nei camerini la più bella non è Chiara, è sua madre, che ha negli occhi la figlia. E ancora Proust, per capire: “La musica, molto diversa in questo dalla compagnia di Albertine, mi aiutava a scendere in me stesso, a scoprirvi qualcosa di nuovo: la varietà che avevo invano cercata nella vita, nel viaggio, di cui tuttavia la nostalgia mi era data da quel flutto sonoro che faceva morire accanto a me le sue onde soleggiate”. (ROMINA CIUFFA) riproduzione riservata rioma brasil

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