“BRASIL!”. ADRIANA CALCANHOTTO, DI DIVE E FALEGNAMI

  • Rioma
  • 23/09/2013

di ROMINA CIUFFA con la collaborazione di IRIS D’AURIZIO >
ADRIANA CALCANHOTTO – 22 settembre 2013, Auditorium Parco della Musica di Roma_Festival “Brasil!”
Alla bellissima Adriana Calcanhotto, vestita, anzi, coniata di verde smeraldo (ma è lo stesso abito di tutti i recenti show brasiliani), il compito di chiudere il Festival “Brasil!” dopo una settimana di concerti, mostre, film, ed eventi di vario genere. La nuora di Vinicius de Moraes, fidanzata della di lui figlia Susana de Moraes, oggi ha occhi impauriti, e non ci si spiega il perché. La stanchezza? Forse. Ma lo sguardo è diverso dallo sguardo di sempre, dall’Adriana con i capelli corti e i modi più sportivi. Questa Adriana pone rispetto all’Adriana a cui siamo usi gli stessi dubbi che pone il suo cognome: le T, si scrive Calcanhotto o Calcanhoto?

Così, senza togliere umanità all’arte, la sera del 22 settembre la sala che tanto l’ha attesa vacilla. Per i fan italiani la Calcanhotto è una garanzia e lei, originaria di Porto Alegre, classe 1965, è figlia proprio di un batterista italiano. Cantante, interprete, compositrice, ha uno stile tutto personale che affonda nel samba e volteggia su melodie estremamente intimistiche e introspettive. La sua voce si libra su bassi tremolanti e fervidi e quando sale li lascia andare con leggerezza, come se ogni musica fosse generata da un soffio. Nel corso degli anni ha saputo conquistare una bella fetta di pubblico italiano e, da quando nel 1990 ha pubblicato il suo primo disco è stata ospitata nel nostro Paese in varie occasioni, l’ultima il 14 luglio 2011, a Villa Ada. In scaletta moltissimi brani, aprendo con il grande, amato classico, “Esquadros”, e con accento carioca pronunciato proseguendo con “Ela é Carioca”, quindi “Três”, “Olhos de Onda”, “Inverno”, “Para lá” (composta con Arnaldo Antunes), “Motivos Reais Banais” (composta con il poeta baiano Waly Salomão, alla cui prolissità e abitudine ad aggiungere strofe su strofe, mai tagliare, lei ha dovuto mettere un freno), la famosissima “Metade”, “Mais Perfumado”, “Não Vá Embora”, “Devolva-me”, “Mais Feliz“, “Cantada”, “Mentiras”, “Marinheiro”.

Questa volta non si può omettere, non si può non parlare di ciò che è accaduto. Il rispetto verso quest’artista rende obbligata la scelta di non soprassedere, perché soprassedere significherebbe dar ragione alle malelingue che, considerando questa una serata di flop, se ne riempiono la bocca come solo “FLOP” sa fare. Scriviamolo, allora: pochi brani, e già i primi tentennamenti, problemi a prendere la tonalità iniziale, a restarvi, accordi fuori armonia, difficoltà sul testo delle canzoni. Conoscendo bene il calibro dell’artista, queste défaillances sono il segno tangibile di un disorientamento. Si consegna al fuso orario, spontaneamente, e lo dichiara: “Estou com fuso“, che è anche un po’ a dire: “Confuso”, confusione a tutti gli effetti. Tanto da arrivare addirittura a dire, dopo l’ennesimo affondo di chitarra: “Ela também está com fuso“, anche la chitarra sta soffrendo il jetlag. È – lo spiega – giunta da Rio il giorno prima, con un aereo “che fa scalo”, un Tap Rio-Roma-Lisbona, e alle 3, poco dopo il termine del concerto, sarà di nuovo in aereoporto a prendere un nuovo aereo, quello dell’alba romana. Con eleganza copre ciò che, più che un disagio, è un blocco, sino a chiedere forza al pubblico, che la sostenga cantando con lei. È  dura per questa diva – fisicamente diva, dal vestito diva, dalla penetrazione oculare diva, dalla certezza di stare sbagliando eppure non crollare diva – sostenere il concerto. (“Pensare e cantare non vanno d’accordo”, dichiara).

Il pubblico in un istante porta al successo, ma è lo stesso che non perdona e che, senza mezzi termini, pretende ciò che gli spetta. La fama è una gran conquista, come tale ha un prezzo. Molti gli applausi, altrettante le lamentele, le lagne, il borbottio. Poche, rare, le voci di comprensione e molte le critiche da chi, dal canto suo, aveva investito soldi per uno spettacolo, dei più costosi del Festival al Villaggio Olimpico, che è stato un buco nell’acqua: “Nada ficou no lugar” (niente è restato al proprio posto), chiude proprio così questo concerto, con le parole che si addicono al suo secondo bis, ora che è stremata e che canta ormai – crede – tra amici che la capiscono. E invece no: son tutti pronti, attendono che si spengano le luci per parlare. Solo un’ora di concerto! Le ha sbagliate tutte! Il boia si fa crudele. Ha ragione: la notorietà ha un prezzo, si diceva, e non è oggi coperto dai 25 euro di biglietto di ingresso. Ci si aspettava un accompagnamento poi, una percussione, un pandeiro sciolto forse. E “Marinheiro”, come riesce a diventare una nenia da che era una “ballad”? La difesa, dalla platea: “Non è bionica”.

Apriamo gli occhi: esiste un limite per tutti, superato il quale a poco valgono i 25 anni di esperienza, la preparazione, lo studio, il controllo emotivo etc. Incorniciare il proprio divo al muro non equivale a togliergli il limite dell’umanità; non sono mai gradevoli gli accanimenti pretenziosi, in questo caso specialmente. Staccato questo quadro dal muro, resta il muro, e dunque una riflessione sul suo stile, noto eppure improvvisamente nuovo, perché ascoltato, visto con altre orecchie, occhi: certe perplessità sulle canzoni ascoltate, nostalgiche fino a sfiorare il sentimentalismo; su testi tanto poetici ma altrettanto fuggevoli da ogni trasporto passionale – è il suo stile, e “tanto faz”; su melodie non proprio moderne; su una voce così aggraziata e soave che mai si scompone e resta trattenuta in gola, mentre tutto dentro esplode. Mentre il pensiero vola a Rio – questo fa bene, la Calcanhotto fa bene: Leblon, l’essere carioca, il suo “Sou carioca”, quell’accento forte, le sue passeggiate. Ma da Rio va a São Paulo, a Salvador, altri luoghi dove giovani talenti esprimono il medesimo romanticismo attraverso un’impronta originale, in uno stile fresco, che si sperimenta e non risulta mai uguale a se stesso secondo il principio per cui, se la grandezza di un artista è la sua capacità di aprire le porte dell’inesplorato, senza mai ripetersi, ogni auto-citazione si trasforma in stimolo di creazione.

E – cercando di giustificare lei, classe 65 quindi in quel limbo tra giovane e “non”, ma anche per essere obiettivi e non perdersi in un bicchiere d’acqua quando si può andare al rubinetto – rimangono forti i dubbi sulla scelta della direzione artistica del “Festival Brasil!”, che ha deciso di chiudere così “sottotono”: non “col senno di poi”, ma come preventiva, consapevole scelta di inserire una solista, voce e chitarra, dopo Zeca Baleiro, che letteralmente aveva conquistato la sala. Confidando di essere lungi dalla “politica del risparmio”, ormai dilagante negli ambienti artistici italiani, sono aperte le riflessioni a riguardo: perché un albergo ai Parioli per gli artisti giunti dal Brasil al Brasil!, costretti a raggiungere il centro con una navetta e non ad esservi già? Perché voli facenti scalo per chi viaggia appositamente verso un lavoro “cotto e mangiato”, quindi riparte velocemente?

Non è una scivolata a mettere in discussione il valore artistico di Adriana Calcanhotto, valida rappresentante della musica brasiliana all’estero, amata e seguita da chi l’ha resa artista degna a tutti gli effetti di per chiudere un Festival quale quello dell’Auditorium. Né mancherà occasione per far sì che la cantante risollevi il proprio pubblico dai dubbi: “Sarà malata?” – non aveva una buona tempra, non ha messo la diva in valigia, ha evitato accuratamente dei melodici “ghirigori” che rendono “Vambora” Vambora (o dimenticati?) date le stonature, ha ripetuto strofe, si è interrotta più volte per ricominciare, ha errato arpeggi e ha fatto difficoltà a trovare le chiusure nei brani (appositamente manteneva un arpeggio indeciso? appositamente restava sulla sensibile? È probabile, ma l’unione dei vari indizi – gravi, precisi e concordanti – lascia quasi credere che sia fatta prova del suo malessere: se si fosse in un’aula di Tribunale la situazione sarebbe pessima).

Terminato il Brasil! del Festival, gli si levi questo punto esclamativo e si torni a riflettere: la musica va aiutata, l’arte va aiutata ed anche un po’ viziata (è più giusto un volo diretto per un’artista che passa per Roma e… “vambora”) e, di contra, l’artista si consideri alla stregua di un falegname, per una volta. Che se consegna un tavolo fatto male non viene pagato, non importa il perché. Inadempimento. O, se si vuole rimanere nell’arte, alla stregua di un’acrobata che se cade da lassù si rompe tutto e non lavora più. Ecco, una volta riportato il divo al livello di un lavorante (non è questo che lamentano, di non essere considerati come tali, come tutti, di non avere accesso al sistema-lavoro?) si stringa il cerchio dei leoni: non esistono grandi o piccoli divi, quando si è divi lo si è punto fermo. Esistono giorni facili e giorni difficili, giorni da leoni e giorni da pecore insomma, giorni da falegnami e giorni da dive. Per falegnami e dive. Algo que jamais se esclareceu/Onde foi exatamente que larguei/Naquele dia mesmo/O leão que sempre cavalguei – “Inverno”, A.C.

Dal pubblico, ci giunge il commento di ROBERTA AMURRI, conoscitrice e fan della Calcanhotto, artista e chitarrista: “Penso che il vero flop sia stato il pubblico dell’Auditorium, troppo freddo e pretenzioso… Su alcuni pezzi le ripetizioni secondo me erano pensate non per riparare a qualche imperfezione della performance ma per dare modo al pubblico di cantare con lei, come succede ad ogni suo concerto in Brasile, o in Portogallo, e talvolta anche qui da noi, come nel 2011 a Villa Ada… L’inizio del concerto è stato perfetto, con almeno cinque pezzi uno più bello dell’altro, senza una sbavatura… Poi, mancando il calore della platea, probabilmente la stanchezza o una reazione emotiva le hanno creato qualche difficoltà…”

“Ho ascoltato ogni suo concerto qui a Roma dal primo al Club La Palma (forse 2003?): si è sempre esibita in solo voce e chitarra, tranne un breve accompagnamento con contrabbasso nel 2011, l’unica differenza è che questa volta aveva una sola chitarra invece di due o tre, e cioè classica, acustica e a volte anche elettrica… La scelta di fare Vambora con la classica creando un nuovo arrangiamento e nuove suggestioni andrebbe apprezzata e non criticata per la mancanza di vocalizzi ripetuti per un decennio ad ogni occasione… La qualità degli arpeggi, delle batide, della scelta degli accordi (non trovo giusto parlare di stonature solo perchè nell’intero concerto ha sbagliato un accordo) non è assolutamente mancata, e anzi, sapendo suonare ogni suo pezzo io ho potuto apprezzare delle raffinatezze e una evoluzione artistica notevole, e nel pezzo “Maldido Radio” accompagnato dal disturbo di una radiolina in cerca di una stazione che lo rendeva oltremodo difficile ho ascoltato una magia ritmica e una grande intensità… Ultima osservazione: non l’ho mai sentita chiudere un pezzo sulla tonica, e tutte le chiusure dei pezzi ascoltati l’altro ieri non sono state né casuali, né frutto di errori, ma di una raffinata ricerca musicale“.

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